Author archives: Claretta Caroppo

Un abito da guascone. I tre moschettieri al cinema. Conversazione con Franco Prono

 

Da domani andrà in scena al Teatro Astra l’ultimo episodio de I Tre Moschettieri firmato TPE, questa volta con la regia di Emiliano Bronzino. E mentre attendiamo con trepidazione l’epilogo di una vicenda che ha appassionato molti spettatori, facciamo un’incursione nel mondo dei lungometraggi.
Gli incontri di approfondimento di natura cinematografica intorno ai Moschettieri sono nati in collaborazione con DAMS dell’Università degli Studi di Torino, con il Museo Nazionale del Cinema e con AIACE Torino e sono stati curati dal Prof. Franco Prono:

Non è sempre scontato organizzare eventi che riguardino il teatro e allo stesso modo il cinema e la televisione, anche perché gli spettatori spesso non sono gli stessi. Quest’anno ho pensato che, dato che I Tre Moschettieri prima di essere un testo teatrale è un grande classico della letteratura, saccheggiato in vario modo dal cinema, valeva la pena scommettere in una manifestazione cinematografica, anche perché i film sui moschettieri sono molti, circa una ventina e di composite tipologie. Stranamente solo uno di questi film è in francese. Escludendo le animazioni e i film muti, ne abbiamo programmati tre.

Lunedì  18 aprile e lunedì 21 marzo le proiezioni de “La maschera di ferro” di Randall Wallace (1998, 132’) e de “I Tre Moschettieri” di Richard Lester  (1973, 106’) si sono svolte presso la Bibliomediateca “Mario Gromo” di via Matilde Serao 8/A, mentre lunedì 7 marzo è stato proposto al Cinema Romano “I Tre Moschettieri” con al regia di George Sidney. “Nell’anno di nostro Signore 1625, mentre l’intrigo e il tradimento dominavano la vita di Francia, un campagnolo della Guascogna, senza presagirlo, si accingeva a mettere in subbuglio quel mondo corrotto”, recita l’incipit del film: il campagnolo, naturalmente, è D’Artagnan (interpretato da Gene Kelly), che, appena giunto a Parigi, conosce tumultuosamente i tre moschettieri del re e inizia insieme a loro numerose avventure. Si tratta di una tra le più celebri versioni cinematografiche del romanzo di Dumas, con una messinscena spettacolare grazie al Technicolor di Robert H. Planck (che ricevette la nomination agli Oscar), al montaggio di Robert Kern e George Boemler, alle sfarzose scenografie curate da Cedric Gibbons e Malcolm Brown, ai costumi di Walter Plunkett e alla colonna sonora di Herbert Stothart. Una curiosità: la regina Anne è interpretata da Angela Lansbury, la celebre protagonista del telefilm ”La signora in giallo”.

Come ci racconta il prof. Franco Prono:

In questo caso l’esperimento è riuscito. Tra il pubblico delle proiezioni c’erano anche persone che erano andate a teatro per seguire le puntate de I Tre Moschettieri e in sala c’era Gianluigi Pizzetti, che interpreta il Re nella produzione TPE. Stuzzicare uno spettatore, incuriosirlo sia al cinema che in teatro non è sempre scontato, ma in questo risiede la grandezza di un classico della letteratura, la cui storia è stata presa in prestito dal cinema prima e in ultimo dal teatro.

E a proposito del lungometraggio di Sidney:

Quella di Sidney è una bellissima trasposizione cinematografica. Io ero piccolissimo quando la vidi. Rappresentò per me, come per tanti coetanei, una forte passione, e pretesi subito il costume da moschettiere per carnevale.

 

Il mio primo Shakespeare. Alberto Gozzi, Lidia Ravera

Si sono celebrati ieri i 400 anni dalla morte di William Shakespeare. Il Bardo ha modificato il modo di percepire i sentimenti, anticipato discipline del pensiero, creato personaggi topici. Sei autori (Nicola Fano, curatore del progetto, Alberto Gozzi, Donatella Musso, Sergi Pierattini, Lidia Ravera, Lia Tomatis), in un progetto firmato TPE, hanno composto altrettanti spettacoli teatrali immaginando il destino dei suoi tanti eroi dopo che cala il sipario. Questa sera, dalle ore 19, si svolgerà il secondo e ultimo appuntamento con la Maratona After Shakespeare, tre mise-en-espace dedicate al Bardo approdano nella suggestiva cornice del Circolo dei Lettori.
Alberto Gozzi e Lidia Ravera, le cui pièce Puck e L’allodola e Salvate Desdemona, insieme a A Losing suit di Sergio Pierattini, sono in scena questa sera dalla 19 al Circolo dei Lettori, ci hanno regalato un ricordo del loro primo Shakespeare:

IL MIO PRIMO SHAKESPEARE di Alberto Gozzi
Il teatro erano i burattini, cinque o sei teste di legnaccio escoriato, e non poteva essere altrimenti, con le craniate che si scambiavano – perché la mia drammaturgia, come tutte quelle dei bambini, era essenziale, tipo: entra A, poniamo Fagiolino (maschera bolognese sottoproletaria, con un sorriso etrusco ma più sul demente che sull’indecifrabile), che incontra B (poniamo il Diavolo, quasi sempre lui): «Ah, sei tu!», «Ah, sei tu!»: si bastonano a sangue. Col tempo, quei burattini avevano finito per metter su delle facce da galeotti più impegnati nella lotta per la sopravvivenza che nell’arte scenica. Anche le donne: una ragazzotta (forse una Rosaura) era guercia; un’altra, che se la tirava a regina o almeno a dama di corte, aveva sacrificato alla carriera mezzo naso; un terzo individuo femminile evidenziava due labbroni protuberanti e violacei; forse erano stati rossi come ciliegie da mangiare di baci ma all’epoca ricordavano le foto segnaletiche di quelle sventurate donne che i protettori punivano quando non raggiungevano l’incasso minimo quotidiano. Non diversamente dalle anime semplici e da alcuni critici che, poco agili nel passaggio dal particolare all’universale, non distinguono lo spettacolo a cui stanno assistendo da un più ampio concetto di teatro, nella mia prima infanzia finivo per identificare l’arte scenica con quella discarica di teste di legno che facevo ferocemente scontrare.
L’attore, inteso come organismo integro e autonomo, si rivelò quando avevo sei anni, sotto un tendone montato da una compagnia di girovaghi che sarebbero piaciuti a Fellini, allora ventottenne. Nel cielo della serata estiva, l’azzurro si ostinava a non morire, anzi filtrava fra le panche della platea per risalire poi fino al palcoscenico dove andava a lambire il corpo di una donna avvolta e insieme svelata da un capo d’abbigliamento che nella mia ingenuità avrei definito una camicia da notte, bianca, vaporosa, per nulla paragonabile a quelle delle donne di casa, così spesse e amorfe. La donna si accompagnava, chissà perchè, con un uomo cattivo e nero quasi quanto la sua barba, che alla fine la uccideva in un rallenty ricco di particolari insostenibili per un bambino; quell’esito mi sembrò tanto più raccapricciante in quanto generato dall’ottusità di lui, proprio come lo erano certe punizioni immotivate dei genitori. Ma lo sgomento maggiore non derivava dall’efferatezza della scena, bensì dalla contraddizione, di cui mi sentivo prigioniero per sempre, fra l’orrore e il senso di colpevole appagamento che esso aveva generato in me.
Solo dopo un lasso di tempo indistinto potei ricostruire che quelle due figure senza nome erano Desdemona e Otello

 

IL MIO PRIMO SHAKESPEARE di Lidia Ravera 

È stato proprio un Otello, il mio primo Shakespeare, per il tramite del signor Orson Wells. Non mi ricordo quanti anni avevo, ma dovevano essere davvero pochi. Così pochi da farmi provare un dolore intollerabile nell’assistere alla violenza contro Desdemona. è uno dei miei primi ricordi di ragazza. Desdemona inerme nel suo letto che subisce le macchinazioni e le menzogne, i giochi di potere fra maschi, la loro forza soverchiante. Il piccolo mondo maschile di Iago e Cassio, dei loro scatti di carriera, degli opportunismi e delle ambizioni che si riversa su una ragazza innamorata e fiduciosa, che aspetta il suo uomo. Fra le lenzuola della festa.
Avevo tredici anni? Quattordici? Ero in un cinema d’essai? Il film era uscito nel 1952, faticò a trovare una distribuzione, anche se era stato girato in Italia.
Io lo vidi nella seconda metà degli anni sessanta? Non ricordo i dettagli, seguivo la mia sorella maggiore sempre, era lei che mi portava a vedere i film “importanti”. Ma ricordo perfettamente il sentimento di ribellione. Io ti vendicherò, Desdemona! Io ti salverò.

Il mio primo Shakespeare. Nicola Fano, Lia Tomatis, Donatella Musso.

Sei appuntamenti dedicati all’eredità di Shakespeare hanno accompagnato il pubblico del Teatro Astra da febbraio alla scorsa settimana. Oggi e domani le 6 mise-en-espace approdano nella suggestiva cornice del Circolo dei Lettori, in una maratona che celebra i 400 anni dalla morte del Bardo, che cade proprio nella data del 23 aprile.
I sei autori che si sono misurati con le riscritture/rielaborazioni di alcuni testi dell’autore inglese si sono chiesti, traducendone le risposte in un composito materiale letterario, quale sia stato l’effetto (al di là del teatro in senso stretto) di Shakespeare sul mondo, sui modi della scrittura, sui rapporti tra individui, e hanno disegnato uno Shakespeare vicino alla contemporaneità.
Nicola Fano, Lia Tomatis e Donatella Musso, le cui pièce sono in scena questa sera dalla 19 al Circolo dei Lettori, ci hanno regalato un ricordo del loro primo Shakespeare:

 

IL MIO PRIMO SHAKESPEARE di Nicola Fano
Il primo Shakespeare della mia vita era un Amleto che mi ha fatto dormire. Certo, avevo visto tanti altri Shakespeare, prima; e ancora di più ne avevo letti, ma il sonno che mi avvinse davanti a quell’Amleto (con Gabriele Lavia e Monica Guerritore, saranno stati trent’anni fa) mi fece scattare dentro qualcosa di nuovo. Nella vita ho visto alcune migliaia di spettacoli teatrali: due sole volte mi sono addormentato. Una volta fu colpa mia, poiché ero troppo stanco; l’altra volta fu merito di quell’Amleto. Dico merito perché alle volte il sonno dello spettatore genera sogni di poesia, non necessariamente mostri. Allora, mi irrigidii di fronte alla impossibilità di condividere i tormenti di quel giovane pazzo e mi risolsi a pensare che Shakespeare lo aveva pensato e scritto in modo diverso. E allora mi convinse che fosse possibile tirare per la giacca quell’autore, senza che lui se ne avesse a male. Per questo, da allora, ho continuano a tirarlo per la giacca: a portarlo di qua e di là nel passato e nel presente delle sue storie e delle nostre storie. Forse, sui miei libri o davanti ai miei spettacoli qualcuno si sarà anche addormentato: ma, se è successo, sarà stata colpa mia e merito di Shakespeare.

 

IL MIO PRIMO SHAKESPEARE di Lia Tomatis
Non saprei dire quando è stato il mio primo “incontro” con Shakespeare, anche perché le sue parole sono oggi talmente diffuse non solo nell’ambito culturale del nostro vivere, ma anche nel quotidiano, nei nostri modi dire, di fare, di pensare, che molto spesso lo incrociamo inconsapevolmente. Quello che vorrei condividere, invece, è un pensiero sul perché Shakespeare e la sua poesia sono così inevitabilmente importanti. Sono parole che ho scritto mentre stavo completando la prima stesura de Il sogno di Bottom, dopo aver riletto La tempesta: “C’è talmente tanta Bellezza nel mondo che se la percepissimo davvero tutta forse non resterebbe spazio per nient’altro. Distratti dalla Bellezza. E chi mangia più? Chi dorme più? Deve essere per questo che ci siamo involuti disimparando la Bellezza. E ora siamo grassi, dormiglioni e col fiato corto. Che gran lavoro la Bellezza invece. Che ti manca il respiro, che ti passa l’appetito, che ti tiene sveglio in piena notte e ti fa sognare in pieno giorno. Una fatica la Bellezza. Ma vale la pena, eccome se vale la pena.

 

IL MIO PRIMO SHAKESPEARE di Donatella Musso
Sogno di una notte di mezza estate, a cinque anni.
Cugini e amici sono accolti in una antica casa detta Il Mondo.
Circolano copioni del Sogno scritti a mano con inchiostro viola. Adulti e bambini si aggirano tra le stanze e in giardino, entrano negli attimi oscillanti dell’inizio. Forse è già sera, sui tavoli ci sono molte candele accese.
Un Puck truccato con carbone è mio cugino Erberto. La sua ultima fidanzata si chiama Soave, attrice a Roma, pettinata alla Veronica Lake, è Titania e io la seguo incantata, ornata come è di penne di pavone, ma di Titania ce ne sono anche altre due, tutte con copione in violetto, si alternano, si scambiano i tempi, ridono con la bocca rossa. I miei genitori si sdoppiano, diventano altro dalla abituale vita di casa. Mio padre, di tanto in tanto, mi raggiunge e mi accarezza, ha la mano calda e forte. Un altro cugino, Angelo, mi conduce a un interruttore centrale e mi invita a spegnere e a accendere a volontà. Sono maestra di luce.
Percepisco che il rito si celebra in casa, lungo le scale, e fuori, sotto gli alberi.
Gli adulti che vedo immersi in un gioco teatrale sono giovani shakespeariani che vogliono vivere, sono tutti passati attraverso una guerra che ha ucciso alcuni loro amici, sono l’Italia che cammina.
Da allora quella festa è profondamente finita. Rimane una vasta pace inconsolabile, quella dei fulgori.

Il mio primo Shakespeare. Paolo Bertinetti, una sera con James Dean

Paolo Bertinetti, professore ordinario di Letteratura inglese, studioso del teatro inglese, della narrativa inglese del Novecento e delle nuove letterature in inglese, che per Einaudi ha tradotto l’Amleto e La tempesta e ha curato l’edizione del Teatro completo di S. Beckett, ci ha regalato un ricordo del suo primo Shakespeare.
Siamo ormai prossimi al 23 aprile e alla celebrazione dei 400 anni dalla morte di William Shakespeare: il TPE ricorda il Bardo con la maratona After Shakespeare, il 23 e 24 aprile al Circolo dei Lettori.

 

Il mio primo Shakespeare è stato Amleto. Non a teatro, ma sulla pagina. Il libro me lo aveva regalato per Natale mio cugino, che aveva una ventina d’anni più di me e che era uomo di buone letture.  Il 31 dicembre 1957 andammo tutti al cinema a vedere  “Il gigante”. Io, pur essendo piccolino (non avevo ancora compiuto 14 anni), ero un fan di James Dean, che mi piaceva moltissimo per i suoi atteggiamenti da ribelle e avevo insistito molto perché si andasse a vedere quel film. Che naturalmente mi piacque molto. Quando tornammo a casa decisi che per concludere degnamente la serata, in attesa della mezzanotte, dovevo fare qualcosa di indiscutibile valore simbolico. Presi il volume, che ancora non avevo aperto, e cercai la pagina dove sapevo che c’era il monologo più famoso di tutto il teatro di Shakespeare (di tutto il teatro, in realtà). E lo declamai ad alta voce, come immaginavo che l’avrebbe potuto recitare James Dean.  Lo lessi in quella vecchia traduzione, che però, per quanto riguarda il primo verso, era quella giusta: “Essere o non essere: questo è il problema”. In tempi recenti qualche dotto studioso ha tradotto diversamente. Sbagliando.
Paolo Bertinetti

Dance macabre. 64 modi di morire (secondo Shakespeare)

Come muore Lady Macbeth? E come Cordelia nel King Lear? Quale il destino di Desdemona in Othello? Tutte le morti violente avvenute nelle tragedie di Shakespeare sono state racchiuse in un’infografica ideata da Cam Magee e Caitlin S. Griffin. Lo stile solletica memorie di pupazzetti tratti dal repertorio della rete, gli stessi che si usano per le toilette, i lavori stradali o le strisce pedonali, e sono un modo molto ironico per ricordare Shakespeare in occasione del 400° anniversario dalla sua dipartita. Tragedie a parte, anche un piccolo bonus, The Winter’s Tale: l’immagine della fuga di Antigono, inseguito dall’orso che lo sbranerà.
E, a proposito delle celebrazioni dedicate a Shakespeare, il 23 e 24 aprile dalle ore 19, al Circolo dei lettori va in scena la Maratona After Shakespeare, tutti e sei i capitoli del progetto firmato TPE dedicato al quarto centenario della morte del drammaturgo.
Il Bardo ha modificato il modo di percepire i sentimenti, anticipato discipline del pensiero, creato personaggi topici. Sei autori (Nicola Fano, curatore del progetto, Alberto Gozzi, Donatella Musso, Sergio Pierattini, Lidia Ravera, Lia Tomatis) hanno composto altrettanti spettacoli teatrali, immaginando il destino dei suoi eroi dopo che cala il sipario, l’effetto di Shakespeare sul mondo, al di là del teatro in senso stretto.
In scena al Circolo dei Lettori, sabato 23 aprile:
LA SIGNORA SHAKESPEARE di Nicola Fano
IL SOGNO DI BOTTOM di Lia Tomatis
LADY M di Donatella Musso

e domenica 24 aprile:
PUCK E L’ALLODOLA di Alberto Gozzi
SALVATE DESDEMONA di Lidia Ravera
A LOSING SUIT di Sergio Pierattini

 

IL RACCONTO DEL TEATRO. Fra la Terra e il Cielo. Maurizio, l’uomo della pietra.

Porta Palazzo, Torino. L’uomo sta tracciando col gesso un perimetro che comprende una decina di lastroni. È il suo palcoscenico. L’uomo indossa già il costume, un paio di pantaloni approssimativi e una maglietta; nei mesi più caldi, sta a torace nudo. È domenica, mattinata tarda. In quegli anni (Settanta) la gente, molti immigrati dal sud, con o senza moglie, andava più a messa di quanto non faccia oggi. Forse gli sfaccendati che guardano l’uomo con un sorrisetto sono laici, forse stanno tornando dalla chiesa. Quando il palcoscenico (il perimetro di gesso) è pronto, al suo centro è comparsa una grossa pietra, un lastrone della piazza; questo è il plot, la sfida, l’antagonista, la macchina teatrale. Simbolicamente, è il Destino. L’uomo si chiama Maurizio Marletta, ma in questo momento è un eroe, collega di Prometeo e di Sisifo; rispetto a loro è anche drammaturgo di se stesso e sa come si costruisce un copione mentre lo si agisce. Percorrendo avanti e indietro il proscenio, l’uomo guarda il pubblico negli occhi. Il prologo, diretto e di forte impatto, giunge subito all’enunciato centrale: “Riuscirà questa merda di uomo a sollevare quella pietra?”. I sorrisi si spengono subito perché ogni spettatore, anche il meno avvezzo alla retorica, formula all’istante un sillogismo: se colui, con quel torace e quelle braccia come tronchi, si definisce una merda di uomo, chi sarò mai io, con le mie gambuzze infilate nei pantaloni a zampa da elefante e col mio toraciuzzo che serve solo da appendiabiti a una giacca dai rever improponibili?
Dopo il prologo, Maurizio sviluppa un dialogo senza risposta con le Divinità: loro (e alza gli occhi al cielo pagano) possono tutto, ma l’uomo/merda non desiste: affronterà la pietra con l’aiuto di quelle stesse Divinità, nonostante sia da esse deriso (gli altri uomini non vengono mai menzionati: che se ne stiano al loro posto di pubblico/merda). Il dialogo di Maurizio e i Superni Abitatori è intenso, si rinnova tutte le domeniche mattina; fra l’Immanenza e la Trascendenza c’è un’autostrada sulla quale l’Uomo della pietra è un pendolare. Qualcuno alza lo sguardo verso le nuvole, come se di lassù qualcuno potesse rivelarsi in trasparenza. Ed è a questo punto che Maurizio affronta la pietra inducendo tutti i presenti a tornare sulla terra.
La catarsi è lunga e drammatica. La pietra viene sollevata, infine, e mostrata al popolo (con una mano sola) come la testa ancora sanguinante di un mostro che si chiama Fatica.

 

Che cosa mangiano I Tre Moschettieri?

Alcune studentesse e alcuni studenti del Corso di Laurea in Culture e Letterature del mondo moderno, coordinati dalla prof.ssa Franca Bruera e dalla dott.ssa Krizia Bonaudo, hanno portato avanti un progetto nell’ambito del corso Geografia e Storia della Letteratura francese. Tale progetto vuole ripensare la letteratura in relazione ai principali sviluppi storico-culturali, geo-politici e sociali di riferimento, rileggere la letteratura non soltanto in relazione alla centralità del modello metropolitano parigino, ma anche e soprattutto nell’ottica di una pluralità di centri d’osservazione legata a spazi e luoghi periferici, rileggendo la letteratura come rete di relazioni tra luoghi geografici e dell’immaginazione  Il progetto è nato in collaborazione con il Teatro Piemonte Europa (TPE), in occasione della rappresentazione in otto puntate de I Tre Moschettieri di Alexandre Dumas.
Le studentesse e gli studenti del corso di Letteratura francese hanno rilevato come Dumas fornisca informazioni sulle specialità e sui vini più prelibati dell’epoca e metta in guardia dai cibi “meno nobili” e sui luoghi in cui vengono consumati. É possibile individuare una mappa gastronomica dei cibi e dei vini che Dumas nomina ne I Tre Moschettieri:
PRIMI: Minestra
SECONDI: Filetto d’agnello; Filetto di vitello; Fricandò; Lepre; Oca; Ossa di montone; Pesce.; Petto di pollo; Pollo arrosto; Prosciutto; Vitello ai cardi; Blanc de Volailles
CONTORNI: Uova alla coque; Verdure miste; Formaggi; Fave; Piatto di spinaci; Legumi misti
DOLCI: Marmellata di mele cotogne; Dolce di mandorle e miele; Cioccolata; Frutta mista
CARTA DEI VINI: Chabertin; Collioire; Eau-de-vie; Rhum; Vin d’Espagne; Vin de Beaugency; Vin de Bordeaux; Vin de Bourgogne; Vin de Champagne; Vin de Malaga; Vin de Montreuil
Ed ecco alcuni passaggi del romanzo (Il testo di riferimento è Alexandre Dumas, Les TroiMousquetaires, 1844 http://www.ebooksgratuits.com/) in cui Athos, Porthos,  Aramis e d’Artagnan parlano di prelibatezze di vario genere:

Ce dîner se composait de viandes galamment troussées, de vins choisis et de fruits superbes.

« Ah ! pardieu ! dit-il en se levant, vous arrivez à merveille, messieurs, j’en étais justement au potage, et vous allez dîner avec moi.

Oh ! oh ! fit d’Artagnan, ce n’est pas Mousqueton qui a pris au lasso de pareilles bouteilles, puis voilà un fricandeau piqué et un filet de boeuf…

Je me refais, dit Porthos, je me refais, rien n’affaiblit comme ces diables de foulures ; avez-vous eu des foulures, Athos ?

Pardieu ! répondit d’Artagnan, moi je mange du veau piqué aux cardons et à la moelle.

Et moi des filets d’agneau, dit Porthos.  Et moi un blanc de volaille, dit Aramis.

Au lieu de poulet, un plat de fèves fit son entrée, plat énorme, dans lequel quelques os de mouton, qu’on eût pu, au premier abord, croire accompagnés de viande, faisaient semblant de se montrer.

Le tour du vin était venu. Maître Coquenard versa d’une bouteille de grès fort exiguë le tiers d’un verre à chacun des jeunes gens, s’en versa à lui-même dans des proportions à peu près égales, et la bouteille passa aussitôt du côté de Porthos et de Mme Coquenard.

Porthos mangea timidement son aile de poule, et frémit lorsqu’il sentit sous la table le genou de la procureuse qui venait trouver le sien. Il but aussi un demi-verre de ce vin fort ménagé, et qu’il reconnut pour cet horrible cru de Montreuil, la terreur des palais exercés.

Un gioco teatrale

L’appuntamento con il ciclo After Shakespeare, che la Fondazione TPE dedica ai 400 anni dalla morte del Bardo, continua questa sera e domani alle 19 alla Sala Prove del Teatro Astra. In scena Lady M. di Donatella Musso, con Carlotta Viscovo e Maria José Revert, scene e costumi di Barbara Tomada, luci di Mauro Panizza e regìa di Alberto Gozzi.

Lady M. racconta la storia di una donna che si trova a comandare in un mondo normalmente gestito dagli uomini. Come Lady Macbeth, la sua vocazione è bramare il potere e, una volta conquistato, mantenerlo fino all’ultimo sangue. Siamo nel contesto di una comunità araba che alimenta terrorismo e conflitti ideali e religiosi. Lady M. ha bisogno di una donna che si faccia esplodere per l’ennesimo attentato, ma tutte le sue donne tradiscono. E, quindi, alla fine le resta solo la via dell’autodistruzione.

E mentre attendiamo lo spettacolo di questa sera, vi sottoponiamo con gioia il Primo Shakespeare di Donatella Musso, un suo personalissimo ricordo del primo incontro con il Bardo:

 

Sogno di una notte di mezza estate, a cinque anni.

Cugini e amici sono accolti in una antica casa detta Il Mondo.

Circolano copioni del Sogno scritti a mano con inchiostro viola. Adulti e bambini si aggirano tra le stanze e in giardino, entrano negli attimi oscillanti dell’inizio. Forse è già sera, sui tavoli ci sono molte candele accese.

Un Puck truccato con carbone è mio cugino Erberto. La sua ultima fidanzata si chiama Soave, attrice a Roma, pettinata alla Veronica Lake, è Titania e io la seguo incantata, ornata come è di penne di pavone, ma di Titania ce ne sono anche altre due, tutte con copione in violetto, si alternano, si scambiano i tempi, ridono con la bocca rossa. I miei genitori si sdoppiano, diventano altro dalla abituale vita di casa. Mio padre, di tanto in tanto, mi raggiunge e mi accarezza, ha la mano calda e forte. Un altro cugino, Angelo, mi conduce a un interruttore centrale e mi invita a spegnere e a accendere a volontà. Sono maestra di luce.

Percepisco che il rito si celebra in casa, lungo le scale, e fuori, sotto gli alberi.

Gli adulti che vedo immersi in un gioco teatrale sono giovani shakespeariani che vogliono vivere, sono tutti passati attraverso una guerra che ha ucciso alcuni loro amici, sono l’Italia che cammina.

Da allora quella festa è profondamente finita. Rimane una vasta pace inconsolabile, quella dei fulgori irrepetibili.

 

Donatella Musso

 

After Shakespeare. DONATELLA MUSSO, LADY M. Divagazioni fra Shakespeare e Verdi prima di andare in scena

Nel melodramma ottocentesco, la cavatina è l’aria con la quale i personaggi di spicco si presentano, quella che cantano alla loro prima entrata in scena, una sorta di autoritratto, insomma, nel quale si traccia un primo profilo del personaggio e, al tempo stesso, si fornisce all’interprete una buona occasione per mettere in mostra le risorse della sua voce. A volte, il virtuosismo coincide con un narcisismo travolgente, come nella celeberrima cavatina di Figaro “Largo al Factotum”; in altri casi, il disegno dell’autoritratto segue sentieri più indiretti, come nel caso della Lady Macbeth di Verdi. Nella stesura del libretto, Francesco Maria Piave lavora, diremmo oggi, “asciugando” la drammaturgia di Shakespeare: Verdi gli sta alle costole (a lui come a tutti gli altri suoi librettisti), e per quanto la sua devozione per Shakespeare sia quasi religiosa, la sua attenzione alla sceneggiatura è ferrea: in un  melodramma, la parola dev’essere lo scheletro, una struttura bilanciata e funzionale sulla quale il compositore crea il complesso discorso musicale. Tornando a Lady Macbeth, le entrate in scena delle protagoniste di Verdi e di Shakespeare avvengono nello stesso punto della trama; anche la situazione scenica è identica: leggono la lettera nella quale il marito, Macbeth, racconta come le tre streghe gli abbiano profetizzato l’ascesa al trono. La sintesi che caratterizza (forzatamente) il libretto di Piave plasma una Lady Macbeth crudamente pragmatica; “Ma sarai tu malvagio?” è una domanda terribilmente diretta; non so perché, mi evoca, grazie a una vertiginosa attualizzazione, la reazione di una moglie manager dei tempi nostri di fronte alla profezia che il marito, un intelligente e svagato economista, diventerà Direttore Generale di Mediobanca: “, Speriamo che abbia le palle…” Ma il dubbio della Lady è passeggero perché la cavatina si conclude con un imperativo che, nonostante la forma arcaica, è di una chiarezza che non ammette repliche: “Ascendivi a regnar”, come a dire: “Se capita l’occasione, prendila al volo senza tante storie”.

https://www.youtube.com/watch?v=avcT52vTeE8

 

 Verdi, Macbeth, SCENA V

Atrio nel castello di Macbeth che mette in altre stanze. Lady Macbeth leggendo una lettera.

LADY “Nel dì della vittoria io le incontrai/ Stupito io n’era per le udite cose;/ Quando i nunzi del Re mi salutaro/ Sir di Caudore, vaticinio uscito/ Dalle veggenti stesse/ Che predissero un serto al capo mio./ Racchiudi in cor questo segreto. Addio.”/ Ambizioso spirto/ Tu sei MacbettoAlla grandezza aneli,/ Ma sarai tu malvagio?/ Pien di misfatti è il calle/ Della potenza, e mal per lui che il piede/ Dubitoso vi pone, e retrocede!/ Vieni t’affretta! Accendere/ Ti vo’ quel freddo core!/ L’audace impresa a compiere/ Io ti darò valore;/ Di Scozia a te promettono/ Le profetesse il trono…/ Che tardi? Accetta il dono,/ Ascendivi a regnar.

Simili divagazioni sulle riscritture shakespeariane mi vengono suggerite da questi ultimi giorni di lavoro sul testo di Donatella Musso, Lady M, con Carlotta Viscovo (la Lady), Maria José Revert (il Coro) e il tecnico Mauro Panizza. Anche questa Lady M, nel linguaggio metrico del testo presenta, a suo modo, una cavatina: “Quello che è fatto non si può disfare./ Conoscevo la strada fin da bambina/ dio, incoronami di rose di dolori/ dolori dei miei nemici sanguinanti / nemici cui farò cavare gli occhi/ dio, dammi la verità dentro/ sferica come una luce / perfetta/ io non ho bisogno di racconti. Qui Macbeth, l’asse debole della tragedia, non c’è, è stato inghiottito da un preambolo mai scritto e ha lasciato alla moglie il compito disostituirlo in una missione che ha come finalità non il potere, ma la morte, paradossale riscatto di una condizione femminile che può assaporare solo nell’estremo sacrificio l’ebbrezza di un bestiale ruolo maschile.

Porthos secondo Godard

“Ho preso un materiale bruto, dei ciottoli perfettamente levigati che ho messo gli uni accanto agli altri, e questo materiale si è organizzato”, scrive Jean-Luc Godard a proposito del suo Vivre sa vie. Girato a Parigi tra il febbraio e il marzo del 1962, è il quarto lungometraggio di Godard e prende spunto da un’ inchiesta giornalistica di Marcel Sacotte dal titolo Où en est avec la prostitution?

Nanà, la ventiduenne protagonista della vicenda, non riesce a guadagnare abbastanza per vivere, pur lavorando come commessa in un negozio di vinili. Il film racconta l’avvicinamento della ragazza al meretricio. Abbordata per strada, si concede a pagamento, è poi introdotta da un’amica nel giro della prostituzione, ma durante una discussione con Raul, il  suo lenone, Nanà è ferita a morte da un colpo di pistola e abbandonata sulla strada. Godard ricorre a una tecnica di narrazione frammentata in dodici quadri, allo scopo di ‘‘accentuare l’aspetto teatrale, l’aspetto brechtiano del film’’.

Il film omaggia Dreyer (con spezzoni del suo La passione di Giovanna D’Arco), Edgar Allan Poe (un cliente di Nanà legge per lei ad alta voce alcune pagine da Il ritratto ovale) e anche Alexandre Dumas, che diviene il pretesto per una dialogo sul senso delle parole, del silenzio e sul rapporto tra pensiero e linguaggio. Nell’undicesimo e penultimo quadro, Nanà, seduta in un bar, intavola una conversazione con un uomo seduto vicino a lei (il filosofo Brice Parain), che le racconta la storia della morte di Porthos, uno de I tre moschettieri di Dumas, che riportiamo qui in parte, nella traduzione italiana:

 

“Le scoccia che la stia guardando?”.

“No”.

“Sembra annoiato”.

“Niente affatto”.

“Cosa sta facendo?”.

“Leggo”.

“Mi offre da bere?”.

“Se vuole…”.

“Viene spesso qui?”.

“No. Qualche volta. Oggi è un caso”.

“Perché legge?”.

É il mio lavoro”.

“Strano. Improvvisamente non so più che dire. Mi succede molto spesso. So quello che voglio dire. Ci penso prima di dirlo per sapere se è proprio ciò che bisogna dire, ma al momento di dirlo non sono più capace di dirlo”.

“Sì, ovviamente. Senta, ha letto “I tre moschettieri?”.

“No, ma ho visto il film. Perché?”.

“Perché, vede, là c’è Porthos. Oltre tutto non è ne “I tre moschettieri”, ma in “Vent’anni dopo”. Porthos, il grande, il forte. Un po’ stupido. Non ha mai pensato in vita sua, capisce? Allora una volta deve mettere una bomba in un sotterraneo per farla esplodere. Lo fa, piazza la sua bomba, accende la miccia, poi scappa, naturalmente. Ma mentre corre, improvvisamente si mette a pensare. A cosa pensa? Si chiede come sia possibile che metta un piede davanti all’altro. Sarà senz’altro capitato anche a lei, no? Allora smette di correre, di camminare. Non riesce più. Non riesce più ad andare avanti. Esplode tutto. Il sotterraneo gli cade addosso. Lui lo sorregge con le spalle, è abbastanza forte. Ma alla fine, dopo un giorno o due, non ricordo, viene schiacciato e muore. Insomma, la prima volta che ha avuto un pensiero, ne è morto”.

“Perché mi racconta delle storie del genere?”.

“Così, per parlare…”.

“Ma perché bisogna parlare sempre? Io penso che bisognerebbe spesso stare zitti, vivere in silenzio. Più si parla, più le parole non vogliono dire nulla”.

“Forse, ma… si può?”.

“Non lo so, io…”.

“Sono sempre stato colpito da ciò: non si può vivere senza parlare”.

“Eppure sarebbe bello vivere senza parlare”.

“Sì, sarebbe bello. Sarebbe bello, insomma… È come se ci si amasse di più. Solo che non è possibile. Non ci si è mai riusciti”.

“Ma perché? Le parole dovrebbero esprimere esattamente ciò che si vuole dire. Ci tradiscono?”.

“C’è questo, ma anche noi le tradiamo. Dobbiamo riuscire a dire ciò che abbiamo da dire, poiché riusciamo a scrivere bene. Insomma, è comunque straordinario che un tizio come Platone si possa comunque ancora capire. Ed è vero, lo possiamo capire! Eppure ha scritto in greco 2.500 anni fa. Insomma, nessuno conosce più la lingua dell’epoca, non è vero, non la si conosce più con esattezza. Quindi, se qualcosa viene trasmesso, si deve riuscire a esprimersi bene. Ed è necessario”.

“E perché bisogna esprimersi? Per capirsi?”.

“Dobbiamo pensare. Per pensare, dobbiamo parlare. Non si pensa in altro modo. E per comunicare, bisogna parlare. E’ la vita umana”.

“Sì, ma allo stesso tempo, è molto difficile. Io penso, al contrario, che la vita dovrebbe essere facile. La sua storia de “I tre moschettieri” forse è molto molto bella, ma è terribile”.

 continua  https://www.youtube.com/watch?v=KBIADXDQNis