IL RACCONTO DEL TEATRO: Eros Pagni. La generale delle due e quindici.

Un ricordo di Luigi Squarzina

Author archives: Claretta Caroppo

IL RACCONTO DEL TEATRO: Eros Pagni. La generale delle due e quindici.

Abbiamo scelto questo ricordo/racconto di Eros Pagni, estrapolato da una chiacchierata con Armando Petrini avvenuta negli spazi dell’Astra Cafè il 23 gennaio 2016, come secondo appuntamento della serie Il Racconto del teatro.

Pagni era a Torino, in scena al Teatro Astra, in occasione della tournée de II sindaco del Rione Sanità di Eduardo De Filippo, presentato in anteprima al Napoli Teatro Festival nel giugno del 2015 e coprodotto dallo Stabile di Genova e dallo Stabile di Napoli , in occasione del trentesimo anniversario della morte del suo autore. E proprio Eduardo, nel caso del nostro raccontino, è la chiave di volta per un giovane Pagni che si sperimenta nel ruolo di Azdak.

Ho avuto la fortuna di crescere professionalmente in un teatro, lo Stabile di Genova. Fin da giovane, per me non ci sono state mezze misure: ora ho settantasette anni e la memoria, a volte, può giocare qualche tranello, ma il personaggio, quello che io, anche se per poco, faccio mio, c’è o non c’è, è sempre stato così.

Ricordo ancora quando, potevo avere trentadue o trentaquattro anni, interpretavo Azdak ne ‘’Il cerchio di gesso del Caucaso’’. Luigi Squarzina, che mi voleva bene e non voleva mandarmi allo sbaraglio, dopo la generale venne da me in camerino, dicendomi: ‘’Bisogna che tu lo sappia, non ci siamo. Azdak, ecco, credo tu non l’abbia capito’’. Non me lo aspettavo, chissà di cosa mi ero convinto. Era l’una e mezza di notte e Squarzina annunciò che avremmo rifatto la generale. Prima di andare via dal camerino mi disse: ‘’Pensa a Eduardo, a come potrebbe farlo lui. E lì mi si aprì un mondo.

Erano le due e quindici quando ricominciammo la generale. Il giorno dopo andammo in scena.

Quando i moschettieri diventarono quattro

 

Come in un castello che pretenda di essere romantico deve aggirarsi un fantasma, così in un romanzo, e ancor più se si tratta di un classico, deve annidarsi, nel buio di qualche suo angolo, un irrisolto, un mistero piccolo, che il processo ermeneutico non prende in considerazione ma che si lascia scorgere dal lettore più ingenuo – ad esempio un ragazzo che privilegi i sentieri dell’avventura ignorando quelli della scrittura. La mia lettura de I tre moschettieri risale all’adolescenza, quindi fu vorace e soprattutto emotiva; mi divertiva la guascona spavalderia di D’Artagnan che lo spingeva a sfidare tre temibili spadaccini uno dopo l’altro, ma al tempo stesso, poiché m’identificavo con quel ragazzotto, tremavo per lui come per un mio coetaneo che provocasse temerariamente i professori di greco, latino e matematica. Proseguendo nella lettura, quando il giovanotto fu accettato dai tre maestri e incominciò a condividere con loro la buona e la cattiva sorte, mi sembrò che Dumas avrebbe dovuto ripensare al titolo del suo romanzo (ne avrebbe avuto tutto il tempo, erano trascorse poche pagine) cambiandolo ne “I quattro moschettieri”; in tal modo si sarebbe evitata quell’ingiusta discriminazione generazionale che confina D’Artagnan nel ruolo di eterno precario della spada. A questo titolo, insomma, mi è sempre sembrato che mancasse un centimetro, ma, ripensandoci, si tratta di una zoppia amarognola e leggiadra che arricchisce il romanzo come, secondo alcuni, il leggero strabismo degli occhi di una bella donna.

Sfumature. Che svanirono quando i moschettieri divennero quattro nella reinvenzione radiofonica di Nizza e Morbelli, che conobbe quattro edizioni, dal 1934 al 1937. Di questa impresa multimediale ci sono giunti pochi reperti (uno ve lo proponiamo con questo link: https://www.youtube.com/watch?v=zXRHDIzdL1g). Per un puro caso (anagrafico), fui testimone dell’onda lunga generata da “I quattro moschettieri”; erano passati più di quindici anni e ancora si ricordavano le follie dei collezionisti per l’introvabile figurina del Feroce saladino; il libro, pubblicato dalla Buitoni/Perugina, era conservato con una cura che rasentava la devozione; qualche volonteroso eseguiva al pianoforte gli spartiti delle canzoni, che peraltro molti canticchiavano ancora (“Sta Luigi, re di Francia,/con tre pulci sulla pancia;/ una salta, l’altra vola,/l’altra tira alla pistola”; “Avevo un cagnolino pechinese…”). L’immersione del romanzo di Dumas nel metatemporale e al tempo stesso nella contemporaneità fu radicale: grazie all’onnipotenza del mezzo radiofonico, i Quattro si spostavano dalla Francia di Luigi XIII alla Russia, per far visita alla Grande Caterina, poi a Hollywood, dove incontravano i giovani divi del cinema americano, da Clark Gable a Marlene Dietrich. L’incidenza della trasmissione sui tempi era rafforzata da un solido (?) aggancio con la merce e il consumo. Tra le iniziative promozionali che la Buitoni/Perugina abbinò alla trasmissione, di particolare successo fu il concorso a premi basato sulla raccolta di figurine contenute nelle confezioni dei prodotti dello sponsor – tavolette di cioccolata, per lo più: una figurina per ogni tavoletta. Chi riusciva a completare centocinquanta album vinceva vincere l’utilitaria Topolino. Tra il luglio del 1936 e il marzo del 1937 ne furono distribuite ben duecento. Che cosa rimase del romanzo di Dumas, investito da questo turbine multimediale? Lo scheletro, ma non solo: miracolosamente, i disegni delle figurine (firmate da Angelo Bioletto) calavano in un corpo (grafico) i quattro protagonisti, caratterizzandoli meticolosamente sulle fisionomie di Dumas; nasceva così un’inquietante tensione fra l’immagine, ancora profumata di cioccolato, e l’inafferrabile delle voci radiofoniche; l’ascoltatore, per la prima volta, veniva coinvolto non solo tramite l’udito ma anche la vista e, in qualche modo, l’olfatto e il gusto. Con la promozione di D’Artagnan a quarto, effettivo moschettiere, l’alone romantico che aveva avvolto i tre eroi originari si era dissolto ed era stato sostituito dal canto delle sirene di una cultura di massa che dopo qualche decennio sarebbe diventato il grande corale in cui tutto si fonde.

 

 

I TRE MOSCHETTIERI: dall’inchiostro al palcoscenico

Intorno ai Moschettieri sono stati pensati degli incontri di approfondimento, in collaborazione con l’Università degli Studi di Torino: alcuni docenti, attraverso specifiche lezioni all’interno degli spazi del Teatro Astra, coinvolgono registi, scenografi, costumisti, attori e tecnici che fanno parte del progetto de I Tre Moschettieri in 8 puntate e offrono la possibilità di brevi incursioni in palcoscenico per assistere all’allestimento delle puntate. Martedì 23 febbraio si è tenuta la lezione della prof.ssa Eva Marinai dal titolo “Dalla narrativa alla scena: un Trionfo per I Tre Moschettieri”, caratterizzata da un’introduzione sul feuilletton (in particolare sul rapporto tra narrazione e teatro) e poi da un incontro-intervista con Beppe Navello, per indagare il passaggio dalla scrittura drammaturgica di Aldo Trionfo per I Tre Moschettieri alla messa in scena, dal primo esperimento a oggi, al Teatro Astra. Due allieve del corso di Storia del teatro della prof.ssa Marinai hanno raccontato questo incontro:

Da una collaborazione tra la Fondazione TPE e l’Università di Torino è nata l’idea di partecipare ad una lezione-incontro tra la nostra docente di Storia del Teatro, Eva Marinai, e il direttore della Fondazione, Beppe Navello, in occasione della realizzazione de I tre Moschettieri. L’incontro al Teatro Astra, dal titolo “Dalla narrativa alla scena: un Trionfo per I tre moschettieri”, cui hanno partecipato circa sessanta studenti del corso di studi in Lettere, si è svolto durante la mattina del 23 febbraio con la testimonianza di Beppe Navello ed è proseguito fino al tardo pomeriggio con le prove di Gigi Proietti. Dopo un’introduzione in cui la docente, Prof.ssa Marinai, ci ha parlato del feuilletton e del rapporto tra narrazione e teatro, leggendoci alcuni passi tratti da alcune Note di regia di Aldo Trionfo (autore del testo drammatico tratto dal romanzo d’appendice) sul tema “diegetico-mimetico”, ci ha raggiunti il regista e direttore del Teatro Beppe Navello, per l’incontro-intervista sulla messa in scena dei Tre moschettieriStagione 1986/1987.

Si tratta della prima volta in cui Beppe Navello, allora direttore del Teatro Stabile dell’Aquila, oggi alla guida della Fondazione TPE (Teatro Piemonte Europa) con sede al Teatro Astra di Torino, decide di sperimentare lo spettacolo seriale attraverso la messa in scena del famoso romanzo d’appendice di Dumas, I Tre Moschettieri. Il successo è immediato, le dodici puntate infatti raggiungeranno il tutto esaurito. 

“Un romanzo che ha segnato la mia giovinezza e che tutt’ora considero uno dei più grandi capolavori della storia della letteratura”, sono le parole d’esordio del nostro incontro con il regista, che a distanza di trent’anni decide di impegnarsi nuovamente nel progetto e nella messinscena del primo episodio dei Tre moschettieri (riadattato per il teatro da Aldo Trionfo), avvalendosi, per le successive puntate (su drammaturgia di Ettore Capriolo, Ghigo De Chiara, Aldo Nicolaj, Renato Nicolini), di una fiorente collaborazione di altri registi italiani di rilievo, alcuni di essi già collaboratori della versione anni Ottanta: Ugo Gregoretti, Gigi Proietti, all’epoca assieme a Maurizio Scaparro, Mario Missiroli e Attilio Corsini, mentre oggi con Piero Maccarinelli, Myriam Tanant, Andrea Baracco, Robert Talarczyk, Emiliano Bronzino, affiancati dal medesimo scenografo di allora: Luigi Perego.

Libertà, amicizia, coraggio e lealtà sono alcuni degli ingredienti principali di quest’avventura letteraria ornata da intrighi amorosi e da tradimenti, che sul palcoscenico prende vita in forma comico-musicale, di vaudeville, grazie alla trasposizione scenica dei drammaturghi sopracitati e alle note del compositore Germano Mazzocchetti.

Navello, regista del testo di Trionfo, evoca gli incontri con il grande artista genovese: “Ricordo benissimo quando andai a Genova da Aldo Trionfo. Lo avevo conosciuto anni prima durante la sua direzione al Teatro Stabile di Torino. Era l’estate del 1986 e gli volevo chiedere se, accanto a Missiroli, Gregoretti e Proietti, mi avrebbe firmato la regia di una delle puntate de I Tre Moschettieri che sarebbe andato in scena all’Aquila dal 12 dicembre di quell’anno per tutta la stagione. Mi rispose che non ce l’avrebbe fatta, era già stanco e malato; ma che sarebbe stato felice di scrivere l’adattamento dal romanzo di Dumas”. Così le parole di Navello, velate da una leggera malinconia, ci conducono nella genesi di questo straordinario kolossal teatrale.

Un’avventura memorabile dunque, che oggi viene rinnovata al Teatro Astra, grazie a una nuova sollecitazione del Ministero che chiede ai Teatri Nazionali o a Rilevanza culturale di diventare stabili nel proprio territorio, costruendo da un lato un rapporto duraturo con il proprio pubblico, e assicurando, dall’altro, una continuità di lavoro e di crescita professionale ai giovani attori italiani. Un nuovo viaggio che non vuole, però, essere un semplice revival: se infatti una certa continuità con il passato è data dalla presenza di alcuni dei protagonisti di allora nella direzione, però, di una valorizzazione dei giovani attori, gli elementi di novità non mancano. Il numero di puntate è stato, infatti, ridotto notevolmente, passando da dodici a otto, e i copioni hanno “subìto” un ulteriore processo di riscrittura e attualizzazione.

La differenza con il passato è evidente anche nell’allestimento scenografico, realizzato da Luigi Perego in collaborazione con il Teatro Regio di Torino, che segue una pianta rettangolare che abbraccia e coinvolge l’intero pubblico, creando uno spazio scenico immerso tra gli spettatori, i quali si trovano a contatto diretto con i corpi degli attori.

Un salto nel tempo in una Parigi seicentesca dai tetti rossi, che per sessanta minuti catapulta lo spettatore in una scenografia tutta interattiva, a dir poco “tridimensionale”, e che gli permette di evadere dal capoluogo piemontese anche grazie a un’insolita dimensione olfattiva delle piazze parigine, ricreata da un delicato effluvio dalla ditta artigianale di profumi Tonatto. Come in tv, infatti, gli attori proporranno dei caroselli: ad ogni puntata l’azione verrà interrotta per trenta secondi al fine di promuovere gli sponsor che hanno finanziato tale progetto.

Un’attenzione di non poco conto quindi quella verso il pubblico, che diventa protagonista, insieme agli attori di un momento che si potrebbe definire di festa collettiva.

A conclusione del nostro incontro, Navello ci spiega come la ragione principale di riprendere in mano questo progetto nasca, oggi come allora, dall’esigenza di sostenere il lavoro giovanile. La compagnia è infatti composta da quaranta giovani attori prevalentemente under 35, di cui annotiamo solo qualche nome: Luca Terracciano (D’Artagnan), classe ’88, diplomato presso la Scuola di Recitazione del Teatro Stabile di Genova, attivo anche nel cinema e nella televisione; Daria Pascal Attolini (Milady) classe 82, diplomata alla Paolo Grassi nel 2007; Alberto Onofrietti (Athos); Diego Casalis (Porthos); Marcella Favilla nel ruolo di Anna d’Austria, regina di Francia. Infine, aggiunge: “la selezione del cast ha creato non poche difficoltà, poiché i nostri giovani ragazzi dovevano saper cantare, ma alla fine tutto si è risolto per il meglio e ci siamo divertiti parecchio”.

 

Sabrina Ventrone e Martina Di Nolfo

IL RACCONTO DEL TEATRO. Glauco Mauri, La ghigliottina.

 

Abbiamo incontrato Glauco Mauri in occasione delle repliche di Una pura formalità, dal film di Giuseppe Tornatore e con versione teatrale e regia dello stesso Mauri, in scena al Teatro Astra lo scorso gennaio.

Con questo ricordo degli esordi teatrali di un giovane (ma profetico) Glauco Mauri si inaugura una serie che abbiamo intitolato Il Racconto del teatro:

 

Era il 1946, io avevo 15 anni e tre mesi. Frequentavo la parrocchia di Sant’Agostino, passavo il tempo giocando a ping pong e un giorno un mio amico mi disse: “Glauco, apriamo un teatrino in una chiesa sconsacrata, qui vicino. Faremo una commedia, ‘La notte del vagabondo’. Vuoi venire a suggerire?”. Ci andai. Avevo ancora i calzoncini corti, e ricordo come mi sono sentito lì, in quella buca. Il direttore di allora, Mario Lazzari, un meccanico, fu colpito talmente da come mi ero appassionato a suggerire le battute, che mi fece salire sul palco, e mi affidò il ruolo di protagonista maschile: un giovane scapestrato che era fuggito da casa, e che vi ritornava per dare l’ultimo saluto al padre morente.
Debuttammo il 1 gennaio 1946, ricordo che c’era il vescovo in prima fila. La commedia finiva con una mia battuta davanti al padre defunto in poltrona: “ Papà, papà, perdono, perdono”.
La pronunciai, ma il sipario, fatto artigianalmente, a ghigliottina, che si sarebbe dovuto chiudere immediatamente dopo, si fermò a metà. Non sapevo cosa fare. A un certo punto il morto papà si destò ed esclamò: “La commedia finisce qui”. Ci furono grasse risate, e applausi.
Mi ricordo che, mentre salutavamo il pubblico, guardai quel sipario rimasto lì, a metà e pensai per la prima volta che sarebbe rimasto così, per me, alzato, per lungo tempo.

 

Glauco Mauri

Shakespeare, prima del calcio d’inizio

Il ciclo After Shakespeare, che la Fondazione TPE dedica ai 400 anni dalla morte del Bardo, continua questa sera e domani alle 19. L’appuntamento è con A Losing Suite di Sergio Pierattini, con Tatiana Lepore e la regia di Alberto Gozzi, in scena alla Sala Prove del Teatro Astra.

Abbiamo chiesto ad alcuni amici del blog di raccontarci il loro Primo Shakespeare attraverso un racconto/ricordo/aneddoto.

Ringraziamo Luca Ragagnin, scrittore, poeta e paroliere, che ci ha regalato questi ricordi:

 

”Shakespeare da ragazzino fu per me una sorta di falsa partenza. I miei ricordi “shakespeariani” più cari sono legati a due persone in particolare che, qualche anno più tardi, me lo porsero come un amico, una guida moderna per la vita che stavo vivendo. Elena De Angeli era diventata il mio editor e, una volta alla settimana, mi invitava a casa sua per una cena o un aperitivo stracolmo di chiacchiere letterarie, di consigli, di scambi di letture. Fu così che, molte cene (o aperitivi) più tardi mi parlò del suo adattamento per i ragazzi de La Tempesta. Mi procurai una copia del volume e da quello incominciai a rileggere ciò che già conoscevo e a leggere il “nuovo”. Ma lo Shakespeare che in gioventù mi aveva sconvolto era quello dei sonetti, e qui entra in gioco la seconda persona, Malcolm Skey, un fine anglista e un uomo dalla cultura impressionante. Veniva ogni tanto a casa mia per vedere qualche partita di calcio e, prima del calcio d’inizio, quasi come un rito, era solito recitarmi a memoria un sonetto. Mi annunciava il numero in italiano e poi, con un registro da attore consumato e una dizione inarrivabile, incominciava. Era una delizia ascoltarlo. A queste due persone scomparse precocemente e che così tanto hanno operato per la cultura italiana da dietro le quinte, dedico il ricordo del “Mio Bardo”.

Luca Ragagnin

 

How many Shakespeare?

“Se i giovani lettori avranno sentito il desiderio di leggere questi racconti, di gran lunga più vivo è il nostro desiderio che i Drammi originali di Shakespeare possano dimostrare loro, quando saranno adulti, di essere qualcosa che arricchisce la fantasia, che tempera la forza d’animo, che fa arretrare di fronte all’egoismo e alla venalità, di essere, insomma, una lezione di pensieri e azioni onorevoli, atti a insegnare la gentilezza, la benevolenza, la generosità e l’umanità, perché le pagine del grande scrittore sono tutte infiorate di mirabili esempi di queste elette virtù.”

La prefazione degli autori a Tales from Shakespeare, racconta il sodalizio dei due fratelli Charles e Mary Lamb, che si cimentarono nell’adattamento di 20 tra tragedie e commedie del Bardo, con l’intento di renderle più comprensibili ai giovani lettori, in forma di racconto: Tutto è bene quel che finisce bene, Sogno di una notte di mezza estate, La bisbetica domata, Racconto d’inverno, La commedia degli equivoci, Molto rumore per nulla, Misura per misura, Come vi piace, La dodicesima notte, I due gentiluomini di Verona, Timone di Atene, Il mercante di Venezia, Romeo e Giulietta, Cimbelino, Amleto, Re Lear, Otello, Macbeth, Pericle, La tempesta. 

I Racconti furono scritti dai due fratelli nel 1806 e stampati nello  stesso anno con il sottotitolo “designed for the Use of Young” e pubblicati per la casa editrice Children’s Library. Questi ‘riassunti imperfetti’ volevano essere un punto di partenza, un preludio alla lettura delle opere originali e ancora oggi la riscrittura letteraria dei fratelli Lamb è presa a modello per la sua accessibilità, nonché scrupolosità e fedeltà all’originale.

Shakespeare è il grande narratore dei sentimenti, più che dei personaggi. Lo sanno bene i sei autori che si sono misurati con le riscritture/rielaborazioni di alcuni testi dell’autore inglese, in occasione dei quattrocento anni dalla morte e del ciclo After Shakespeare proposto dalla fondazione TPE. Essi si sono chiesti, traducendone le risposte in un composito materiale letterario, quale sia stato l’effetto (al di là del teatro in senso stretto) di Shakespeare sul mondo, sui modi della scrittura, sui rapporti tra individui, e hanno disegnato uno Shakespeare vicino alla contemporaneità.

Sergio Pierattini, il cui monologo A Losing suite andrà in scena nella Sala Prove del Teatro Astra l’1 e il 2 aprile, con Tatiana Lepore e con la regia di Alberto Gozzi, immagina che Jessica, la figlia di Shylock de Il mercante di Venezia, alla fine torni dal padre per farne ancora una volta il capro espiatorio di colpe (forse) commesse da altri. E così, in un lungo monologo, Gessica ripercorre i tratti di una generazione senza padri, che ha cercato di tradire fino alle radici le proprie origini senza neppure riuscire a salvarsi:

”Crederanno che siamo impazziti. Ritornare? Noi. Il coraggio. La sfrontatezza. Dopo quello che ho fatto. Osare mostrarmi così sfacciatamente. Come se nulla fosse mai accaduto. Avete ragione. E non spingete, per favore! Mi fate male! Ho detto che sono pronta. Andiamo! Sono trnata per rendermi alla giustizia. Il carcere certo. Io carcere, poi il processo, la sentenza e la morte se morte deve essere. Ma fate piano! E voi signori, piano con quei sassi! Tirateceli pure addosso ma fate piano, con delicatezza! Avrete giustizia! Piano! Malnati! Avrete giustizia! Statene certi, eccome se l’avrete! Giustizia! Ce ne sarà per tutti!”.