Il racconto del teatro

Un abito da guascone. I tre moschettieri al cinema. Conversazione con Franco Prono

 

Da domani andrà in scena al Teatro Astra l’ultimo episodio de I Tre Moschettieri firmato TPE, questa volta con la regia di Emiliano Bronzino. E mentre attendiamo con trepidazione l’epilogo di una vicenda che ha appassionato molti spettatori, facciamo un’incursione nel mondo dei lungometraggi.
Gli incontri di approfondimento di natura cinematografica intorno ai Moschettieri sono nati in collaborazione con DAMS dell’Università degli Studi di Torino, con il Museo Nazionale del Cinema e con AIACE Torino e sono stati curati dal Prof. Franco Prono:

Non è sempre scontato organizzare eventi che riguardino il teatro e allo stesso modo il cinema e la televisione, anche perché gli spettatori spesso non sono gli stessi. Quest’anno ho pensato che, dato che I Tre Moschettieri prima di essere un testo teatrale è un grande classico della letteratura, saccheggiato in vario modo dal cinema, valeva la pena scommettere in una manifestazione cinematografica, anche perché i film sui moschettieri sono molti, circa una ventina e di composite tipologie. Stranamente solo uno di questi film è in francese. Escludendo le animazioni e i film muti, ne abbiamo programmati tre.

Lunedì  18 aprile e lunedì 21 marzo le proiezioni de “La maschera di ferro” di Randall Wallace (1998, 132’) e de “I Tre Moschettieri” di Richard Lester  (1973, 106’) si sono svolte presso la Bibliomediateca “Mario Gromo” di via Matilde Serao 8/A, mentre lunedì 7 marzo è stato proposto al Cinema Romano “I Tre Moschettieri” con al regia di George Sidney. “Nell’anno di nostro Signore 1625, mentre l’intrigo e il tradimento dominavano la vita di Francia, un campagnolo della Guascogna, senza presagirlo, si accingeva a mettere in subbuglio quel mondo corrotto”, recita l’incipit del film: il campagnolo, naturalmente, è D’Artagnan (interpretato da Gene Kelly), che, appena giunto a Parigi, conosce tumultuosamente i tre moschettieri del re e inizia insieme a loro numerose avventure. Si tratta di una tra le più celebri versioni cinematografiche del romanzo di Dumas, con una messinscena spettacolare grazie al Technicolor di Robert H. Planck (che ricevette la nomination agli Oscar), al montaggio di Robert Kern e George Boemler, alle sfarzose scenografie curate da Cedric Gibbons e Malcolm Brown, ai costumi di Walter Plunkett e alla colonna sonora di Herbert Stothart. Una curiosità: la regina Anne è interpretata da Angela Lansbury, la celebre protagonista del telefilm ”La signora in giallo”.

Come ci racconta il prof. Franco Prono:

In questo caso l’esperimento è riuscito. Tra il pubblico delle proiezioni c’erano anche persone che erano andate a teatro per seguire le puntate de I Tre Moschettieri e in sala c’era Gianluigi Pizzetti, che interpreta il Re nella produzione TPE. Stuzzicare uno spettatore, incuriosirlo sia al cinema che in teatro non è sempre scontato, ma in questo risiede la grandezza di un classico della letteratura, la cui storia è stata presa in prestito dal cinema prima e in ultimo dal teatro.

E a proposito del lungometraggio di Sidney:

Quella di Sidney è una bellissima trasposizione cinematografica. Io ero piccolissimo quando la vidi. Rappresentò per me, come per tanti coetanei, una forte passione, e pretesi subito il costume da moschettiere per carnevale.

 

IL RACCONTO DEL TEATRO. Fra la Terra e il Cielo. Maurizio, l’uomo della pietra.

Porta Palazzo, Torino. L’uomo sta tracciando col gesso un perimetro che comprende una decina di lastroni. È il suo palcoscenico. L’uomo indossa già il costume, un paio di pantaloni approssimativi e una maglietta; nei mesi più caldi, sta a torace nudo. È domenica, mattinata tarda. In quegli anni (Settanta) la gente, molti immigrati dal sud, con o senza moglie, andava più a messa di quanto non faccia oggi. Forse gli sfaccendati che guardano l’uomo con un sorrisetto sono laici, forse stanno tornando dalla chiesa. Quando il palcoscenico (il perimetro di gesso) è pronto, al suo centro è comparsa una grossa pietra, un lastrone della piazza; questo è il plot, la sfida, l’antagonista, la macchina teatrale. Simbolicamente, è il Destino. L’uomo si chiama Maurizio Marletta, ma in questo momento è un eroe, collega di Prometeo e di Sisifo; rispetto a loro è anche drammaturgo di se stesso e sa come si costruisce un copione mentre lo si agisce. Percorrendo avanti e indietro il proscenio, l’uomo guarda il pubblico negli occhi. Il prologo, diretto e di forte impatto, giunge subito all’enunciato centrale: “Riuscirà questa merda di uomo a sollevare quella pietra?”. I sorrisi si spengono subito perché ogni spettatore, anche il meno avvezzo alla retorica, formula all’istante un sillogismo: se colui, con quel torace e quelle braccia come tronchi, si definisce una merda di uomo, chi sarò mai io, con le mie gambuzze infilate nei pantaloni a zampa da elefante e col mio toraciuzzo che serve solo da appendiabiti a una giacca dai rever improponibili?
Dopo il prologo, Maurizio sviluppa un dialogo senza risposta con le Divinità: loro (e alza gli occhi al cielo pagano) possono tutto, ma l’uomo/merda non desiste: affronterà la pietra con l’aiuto di quelle stesse Divinità, nonostante sia da esse deriso (gli altri uomini non vengono mai menzionati: che se ne stiano al loro posto di pubblico/merda). Il dialogo di Maurizio e i Superni Abitatori è intenso, si rinnova tutte le domeniche mattina; fra l’Immanenza e la Trascendenza c’è un’autostrada sulla quale l’Uomo della pietra è un pendolare. Qualcuno alza lo sguardo verso le nuvole, come se di lassù qualcuno potesse rivelarsi in trasparenza. Ed è a questo punto che Maurizio affronta la pietra inducendo tutti i presenti a tornare sulla terra.
La catarsi è lunga e drammatica. La pietra viene sollevata, infine, e mostrata al popolo (con una mano sola) come la testa ancora sanguinante di un mostro che si chiama Fatica.

 

IL RACCONTO DEL TEATRO: Eros Pagni. La generale delle due e quindici.

Abbiamo scelto questo ricordo/racconto di Eros Pagni, estrapolato da una chiacchierata con Armando Petrini avvenuta negli spazi dell’Astra Cafè il 23 gennaio 2016, come secondo appuntamento della serie Il Racconto del teatro.

Pagni era a Torino, in scena al Teatro Astra, in occasione della tournée de II sindaco del Rione Sanità di Eduardo De Filippo, presentato in anteprima al Napoli Teatro Festival nel giugno del 2015 e coprodotto dallo Stabile di Genova e dallo Stabile di Napoli , in occasione del trentesimo anniversario della morte del suo autore. E proprio Eduardo, nel caso del nostro raccontino, è la chiave di volta per un giovane Pagni che si sperimenta nel ruolo di Azdak.

Ho avuto la fortuna di crescere professionalmente in un teatro, lo Stabile di Genova. Fin da giovane, per me non ci sono state mezze misure: ora ho settantasette anni e la memoria, a volte, può giocare qualche tranello, ma il personaggio, quello che io, anche se per poco, faccio mio, c’è o non c’è, è sempre stato così.

Ricordo ancora quando, potevo avere trentadue o trentaquattro anni, interpretavo Azdak ne ‘’Il cerchio di gesso del Caucaso’’. Luigi Squarzina, che mi voleva bene e non voleva mandarmi allo sbaraglio, dopo la generale venne da me in camerino, dicendomi: ‘’Bisogna che tu lo sappia, non ci siamo. Azdak, ecco, credo tu non l’abbia capito’’. Non me lo aspettavo, chissà di cosa mi ero convinto. Era l’una e mezza di notte e Squarzina annunciò che avremmo rifatto la generale. Prima di andare via dal camerino mi disse: ‘’Pensa a Eduardo, a come potrebbe farlo lui. E lì mi si aprì un mondo.

Erano le due e quindici quando ricominciammo la generale. Il giorno dopo andammo in scena.

IL RACCONTO DEL TEATRO. Glauco Mauri, La ghigliottina.

 

Abbiamo incontrato Glauco Mauri in occasione delle repliche di Una pura formalità, dal film di Giuseppe Tornatore e con versione teatrale e regia dello stesso Mauri, in scena al Teatro Astra lo scorso gennaio.

Con questo ricordo degli esordi teatrali di un giovane (ma profetico) Glauco Mauri si inaugura una serie che abbiamo intitolato Il Racconto del teatro:

 

Era il 1946, io avevo 15 anni e tre mesi. Frequentavo la parrocchia di Sant’Agostino, passavo il tempo giocando a ping pong e un giorno un mio amico mi disse: “Glauco, apriamo un teatrino in una chiesa sconsacrata, qui vicino. Faremo una commedia, ‘La notte del vagabondo’. Vuoi venire a suggerire?”. Ci andai. Avevo ancora i calzoncini corti, e ricordo come mi sono sentito lì, in quella buca. Il direttore di allora, Mario Lazzari, un meccanico, fu colpito talmente da come mi ero appassionato a suggerire le battute, che mi fece salire sul palco, e mi affidò il ruolo di protagonista maschile: un giovane scapestrato che era fuggito da casa, e che vi ritornava per dare l’ultimo saluto al padre morente.
Debuttammo il 1 gennaio 1946, ricordo che c’era il vescovo in prima fila. La commedia finiva con una mia battuta davanti al padre defunto in poltrona: “ Papà, papà, perdono, perdono”.
La pronunciai, ma il sipario, fatto artigianalmente, a ghigliottina, che si sarebbe dovuto chiudere immediatamente dopo, si fermò a metà. Non sapevo cosa fare. A un certo punto il morto papà si destò ed esclamò: “La commedia finisce qui”. Ci furono grasse risate, e applausi.
Mi ricordo che, mentre salutavamo il pubblico, guardai quel sipario rimasto lì, a metà e pensai per la prima volta che sarebbe rimasto così, per me, alzato, per lungo tempo.

 

Glauco Mauri