Il racconto del teatro

prima ricognizione intorno al Polo

APPUNTI PER UN NOVECENTO

 

Non vi abbiamo detto niente prima, perché la serata era a inviti, era un rodaggio, un primo passo in uno spazio che si viene costruendo da alcuni mesi a Torino, questo: Polo del Novecento che sarà inaugurato in primavera e che può diventare uno straordinario volano per la cultura torinese.
Dal punto di vista drammaturgico, il nostro spettacolo è stato molto lineare e apparentemente piuttosto basico: quattro attori (Charlotte Barbera, Andrea Fazzari, Eleni Molos, Rocco Rizzo), sei videopillole di Francesco Ghisi e Claretta Caroppo, e un drammaturgo in campo impegnato a cucire i racconti degli abitanti del quartiere e i materiali letterari che gli attori andavano dipanando. Il gioco, per quanto semplice, era piuttosto spericolato, come lo sono sempre le analogie e i contrappunti che cercano di  organizzare in un’unica partitura materiali eterogenei. L’esperimento è riuscito? A giudicare dalle reazioni del pubblico si direbbe di sì, ma la riprova l’avremo più avanti quando e se questo viaggio riprenderà con nuove tappe: il Novecento è una sterminata regione, tutta da interpretare e da ripercorrere.

POLO DEL ‘900

 

Improvvisazione… “Numeri sbagliati”

 

Quasi un esercizio all’impronta quello di Michele di Mauro e Carlotta Viscovo, che, colti durante le prove di ‘The secret love life of Ophelia’, in scena al teatro Astra il 20 e il 21 novembre, diventano, all’improvviso, le voci del racconto Numeri sbagliati dell’autrice ungherese Agota Kristof.

Cresciuta a Csikvand e morta nel 2011, la Kristof si era rifugiata, dal 1956, a Neuchatel, in Svizzera, fuggita dal suo Paese quando l’Armata rossa era intervenuta per soffocare la rivolta popolare contro l’invasione sovietica, e aveva adottato il francese come lingua letteraria.

Numeri sbagliati è un racconto di coincidenze e solitudine, tra i 25 contenuti nella raccolta La vendetta.

EVA FUTURA – recensione

 

da DRAMMA.IT

Se c’è una caratteristica essenziale nella scrittura di Alberto Gozzi, questa, a mio avviso, dovrebbe essere individuata e riassunta nella leggerezza, cioè in quella capacità di aderire, con una sintassi semplice ma mai semplificata o semplificante, alle questioni che affronta e ai concetti che sviluppa quasi disegnandone, con delicatezza appunto, i profili senza deturparli o deformarli con la violenza del preconcetto. È una scrittura che ci accompagna e, pur così ricca di suggerimenti e di corrispondenze, sembra insieme a noi costruire un percorso di senso e di significato avvalendosi di un motore tanto potente quanto ormai desueto, l’immaginazione. “Eva futura” è la sua più recente drammaturgia, in scena al Teatro Astra di Torino per la Stagione di TPE Teatro Piemonte Europa, dall’8 al 13 dicembre. Più che liberamente tratta dall’omonimo romanzo ottocentesco di Villiers De L’Isle Adam, di cui sembra rispettare con fedeltà sia il plot che a grandi linee lo sviluppo narrativo, appare appunto “immaginata” a partire da quello.
Riassumendo il ricco e potente Lord Ewald è innamorato di una donna bellissima ma, a suo dire, angosciosamente algida e lontana, la cantante Alicia Clary, che lo spinge alla disperazione fino al desiderio di suicidio. Lo scienziato Thomas Edison, qui più che scienziato mago, gli propone di sostituire l’amata con un “androide” in cui insufflare quelle qualità intellettuali e affettive di cui sarebbe priva. Allo spettatore ovviamente il seguito e l’esito.
Nato in ambiente simbolista nella Francia di fine ottocento il romanzo, pochissimo notato o amato alla sua uscita, è stato uno straordinario incubatore di suggestioni e suggerimenti che hanno attraversato tutto il novecento giungendo fino a noi, a partire da quel termine, “androide”, che sarà il centro della fantascienza contemporanea nelle sue più affascinanti e profonde declinazioni, fino a Philip K. Dick e a quel “Blade Runner” ispirato al suo Do Androids Dream of Electric Sheep?.
Gozzi dunque costruisce una drammaturgia che, all’apparenza aderendo quasi a calco a quell’immagine, ne seleziona sfumature ed espressioni, quelle espressioni e sfumature che più da vicino lo interessano, seleziona e poi rappresenta, quasi a discettarne insieme mentre la storia si sviluppa con ritmo e coerenza in scena.
Emerge l’interrogativo del femminile, il suo essere una domanda quasi per sua natura senza risposta, una domanda perennemente aperta che, se chiusa e definita, rischierebbe di perire nel vuoto e nell’assenza. Un interrogativo paradossalmente rappresentato dai tre personaggi femminili in scena, la serva, la cantante, e il daimon di Edison, ciascuna all’apparenza incastrata tra il livello basso ed il livello sublime della vita ma in continua reciproca suggestione.
Emerge anche il problema dell’identità profonda che, potendo essere costruita e destrutturata ma non potendo ancora essere creata dal nulla, sembra continuare a sfuggire fortunosamente e fortunatamente ad ogni tentativo di definitivo controllo.
La drammaturgia così, per la sua stessa natura e per la coerenza estetica che la guida, si sviluppa in una stratificazione e duplicazione multidisciplinare (molto interessante l’uso del croma key) e multisegnica, e su più piani sintattici ciascuno dei quali sembra costituire o costruire una via di fuga possibile, per il drammaturgo come per noi spettatori.
Tra le tante suggestioni di cui ci gratifica, non si può non ricordare Massimo Bontempelli, altro maestro della leggerezza e della immaginazione, che scrisse un suo romanzo “Eva Ultima”, ispirato alle, peraltro da lui ribaltate, intuizioni di Villiers e che con “Nostra Dea” cercò forse in scena di risolvere il quesito intorno alla identità e alla sua origine.
Una bella drammaturgia ed una prova interessante di Alberto Gozzi, se vogliamo analoga ad alcuni primi lavori di Edoardo Erba, sospesi in un indefinito piano di realtà.
La regia è ovviamente dello stesso Alberto Gozzi che ha integralmente curato l’intera messa in scena. Sul palcoscenico Andrea Fazzari, Eleni Molos, Anna Montalenti, Fiorenza Pieri e Rocco Rizzo, tutti bravi. Una produzione di Radiospazioteatro in collaborazione con TPE.
Gozzi, in un certo senso, esplora ancora una volta la via del “teatro da camera” ma la forza dello spettacolo, a mio avviso, meriterebbe anche spazi più ampi. Uno spettacolo comunque molto apprezzato e applaudito.

EVA FUTURA – l’antenata


 

La memoria della rete funziona benissimo, a volte fin troppo, certo più della nostra, o almeno della mia. Non mi ero dimenticato, naturalmente, di aver scritto e realizzato una versione televisiva di Eva futura, ma tutto il resto era fluttuante. Ricordavo i tre grandi  interpreti (Herlitzka, Schirinzi, Ubaldi) immersi nel bianco e nero di uno studio televisivo scenografato dal talento di Eugenio Guglielminetti – un marchingegno teatrale con molto legno e carrelli, quindi vagamente provocatorio, in quegli studi della rai di Torino;  c’era forse il segreto desiderio di fare del teatro abusivo alle spalle della tv, o una sorta di richiamo familiare, visto che mio fratello Luigi aveva messo in scena, a sua volta, una Eva futura al Teatro delle Moline di Bologna. Oltre una certa misura, i picchi autobiografici si autoregolano (tranne che per i più patologici  celebratori di se stessi): scatta una sorta di termostato che non solo li neutralizza, ma li spinge sotto la coperta spessa della rimozione dove se ne stanno fino a quando, dalla schiuma della rete, non spunta un fotogramma o, come in questo caso, un piccolo collage; fortunatamente, si è affacciato quando ormai questa Eva futura era terminata e per così dire sigillata nelle repliche, perché domenica 13 anche l’Eva dell’Astra incomincerà a perdere nelle settimane e nei mesi i suoi colori per prendere il suo posto negli archivi del bianco e nero.

Appunti di… EVA FUTURA (4)

 

Come altri spettacoli che ho realizzato in questi anni, anche questo nasce da una riscrittura. Ogni volta mi verrebbe da sottolineare: questa è la più profonda, la più radicale, ma credo sia una suggestione dovuta al debutto imminente. Come nei rapporti amorosi, le implicazioni e le modalità di un tradimento letterario (una riscrittura lo è, inevitabilmente) sono molteplici e difficili da ricostruire. In questo caso, la vittima del tradimento è un romanzo dimenticato come questo di Villiers de L’Isle Adam – tanto dimenticato da garantire al traditore una quasi certa impunità: solo uno storico della letteratura francese o uno dei rari lettori contemporanei di Villiers potrebbe smascherare la filiera dei misfatti compiuti sulla scrittura arabescata della Eva futura originale: anzitutto la sua riduzione a fabula, poi l’intervento devastante del frullatore drammaturgico, infine quello della macchina del dialogo, che scarnifica, asciuga come un fon e proietta la salma dell’opera originale, coi suoi capelli dritti stecchiti, in un luogo del tutto a lei estraneo com’è il palcoscenico, con quegli attori così terribilmente corporei rispetto alla natura impalpabile dei personaggi narrati da Villiers. E tuttavia (perché c’è un tuttavia, altrimenti non saremmo qui a parlarne) qualche legame sottile con l’opera originale, a parte la fabula, credo sia rimasto; anzitutto l’ossessivo macchinismo da cui nasce il romanzo (del 1886): Edison costruisce una donna artificiale che rimpiazzi quella reale, ritenuta insoddisfacente dal suo innamorato Lord Ewald; e poi la contrapposizione fra tecnologia e metafisica; e ancora: un susseguirsi di passeggiate nei giardini del Bello, dell’Ideale, del Sogno. Ma su quest’ultimo punto devo rassicurare lo spettatore: tutta questa architettura speculativa è franata nel passaggio dal romanzo alla scena, e i pochi ruderi rimasti sono innocui, anzi quasi comodi, come quelle rovine romane sulle quali siedono i turisti per consumare un panino sorvolando sulla loro passata maestà. È accaduto, e non da oggi: quasi due secoli fa Victor Hugo, nella prefazione al suo Cromwell, aveva intuito la necessità del Grottesco inteso come chiave d’interpretazione dell’uomo, crogiolo di bello e brutto, cielo e terra, umano e divino. Nell’Eva futura originale, Villiers costeggia il Grottesco, che stempera nella ragnatela della scrittura; durante la caduta fatale dal romanzo al palcoscenico quei fili fragilissimi si sono strappati e ci ritroviamo tutti “qui nel nostro qui” scenico (lo confessa il nostro Edison nelle prime battute), consapevoli che una caduta non è la fine del mondo ma, al contrario, una benefica fuga dal Sublime (ancora tanto pateticamente ostentato dalla cultura di massa nella sua versione kitsch).

Alberto Gozzi

Appunti di… EVA FUTURA (3)

 

RIPERCORRIAMO LA NASCITA DELLO SPETTACOLO EVA FUTURA, CURIOSANDO SUL BLOG DI “RADIOSPAZIO TEATRO

 

5 dicembre 2015

Durante le prove di ieri, non abbiamo potuto proiettare, per alcune ore, i video che abbiamo realizzato in chroma key, una decina di inserti che solo in un quattro momenti si combinano con gli attori: per lo più sono brevissime sequenze autonome dal punto di vista narrativo: potremmo definirli microracconti compiuti che fanno progredire l’azione di qualche centimetro, ma che non assolvono soltanto a questa funzione (nulla è puramente funzionale, su un palcoscenico): la loro natura fredda, altra, artificiosa (attori che diventano fantasmi di attori per riacquistare un attimo più tardi la loro compiutezza umana) dilata il tessuto scenico rendendo più elastica la scatola teatrale – è un aprire di tanto in tanto la finestra per respirare un’aria diversa, magari più freddina: si torna ritemprati alle proprie occupazioni, oppure, dipende dai temperamenti, si rimpiange quell’altrove che si è appena sbirciato e si pensa come sarebbe appagante un’Eva futura realizzata tutta in video con innumerevoli scenari colorati che si avvicendano grazie alla versatilità del chroma key.
Tornando alle prove di ieri, la notizia che per un paio d’ore non sarebbe stato possibile proiettare i video (ragioni tecniche) è stata accolta come un piccolo lutto, specialmente dagli attori – a me sembrava un fastidio, ma superabile: avremmo potuto provare le numerose scene senza video, mettere a fuoco alcuni passaggi non ancora ben risolti, insomma il lavoro non mancava. Ne abbiamo discusso per un paio d’ore, fino a quando la luce dei video non è ritornata, e come dopo un black out (di natura prevalentemente spirituale, direi) gli attori hanno battuto le mani, bimbi sottratti al buio, oppure privati ingiustamente di un giocattolo. In quel momento ho capito che lo spettacolo, ahimè, era pronto.