Quando i moschettieri diventarono quattro

 

Come in un castello che pretenda di essere romantico deve aggirarsi un fantasma, così in un romanzo, e ancor più se si tratta di un classico, deve annidarsi, nel buio di qualche suo angolo, un irrisolto, un mistero piccolo, che il processo ermeneutico non prende in considerazione ma che si lascia scorgere dal lettore più ingenuo – ad esempio un ragazzo che privilegi i sentieri dell’avventura ignorando quelli della scrittura. La mia lettura de I tre moschettieri risale all’adolescenza, quindi fu vorace e soprattutto emotiva; mi divertiva la guascona spavalderia di D’Artagnan che lo spingeva a sfidare tre temibili spadaccini uno dopo l’altro, ma al tempo stesso, poiché m’identificavo con quel ragazzotto, tremavo per lui come per un mio coetaneo che provocasse temerariamente i professori di greco, latino e matematica. Proseguendo nella lettura, quando il giovanotto fu accettato dai tre maestri e incominciò a condividere con loro la buona e la cattiva sorte, mi sembrò che Dumas avrebbe dovuto ripensare al titolo del suo romanzo (ne avrebbe avuto tutto il tempo, erano trascorse poche pagine) cambiandolo ne “I quattro moschettieri”; in tal modo si sarebbe evitata quell’ingiusta discriminazione generazionale che confina D’Artagnan nel ruolo di eterno precario della spada. A questo titolo, insomma, mi è sempre sembrato che mancasse un centimetro, ma, ripensandoci, si tratta di una zoppia amarognola e leggiadra che arricchisce il romanzo come, secondo alcuni, il leggero strabismo degli occhi di una bella donna.

Sfumature. Che svanirono quando i moschettieri divennero quattro nella reinvenzione radiofonica di Nizza e Morbelli, che conobbe quattro edizioni, dal 1934 al 1937. Di questa impresa multimediale ci sono giunti pochi reperti (uno ve lo proponiamo con questo link: https://www.youtube.com/watch?v=zXRHDIzdL1g). Per un puro caso (anagrafico), fui testimone dell’onda lunga generata da “I quattro moschettieri”; erano passati più di quindici anni e ancora si ricordavano le follie dei collezionisti per l’introvabile figurina del Feroce saladino; il libro, pubblicato dalla Buitoni/Perugina, era conservato con una cura che rasentava la devozione; qualche volonteroso eseguiva al pianoforte gli spartiti delle canzoni, che peraltro molti canticchiavano ancora (“Sta Luigi, re di Francia,/con tre pulci sulla pancia;/ una salta, l’altra vola,/l’altra tira alla pistola”; “Avevo un cagnolino pechinese…”). L’immersione del romanzo di Dumas nel metatemporale e al tempo stesso nella contemporaneità fu radicale: grazie all’onnipotenza del mezzo radiofonico, i Quattro si spostavano dalla Francia di Luigi XIII alla Russia, per far visita alla Grande Caterina, poi a Hollywood, dove incontravano i giovani divi del cinema americano, da Clark Gable a Marlene Dietrich. L’incidenza della trasmissione sui tempi era rafforzata da un solido (?) aggancio con la merce e il consumo. Tra le iniziative promozionali che la Buitoni/Perugina abbinò alla trasmissione, di particolare successo fu il concorso a premi basato sulla raccolta di figurine contenute nelle confezioni dei prodotti dello sponsor – tavolette di cioccolata, per lo più: una figurina per ogni tavoletta. Chi riusciva a completare centocinquanta album vinceva vincere l’utilitaria Topolino. Tra il luglio del 1936 e il marzo del 1937 ne furono distribuite ben duecento. Che cosa rimase del romanzo di Dumas, investito da questo turbine multimediale? Lo scheletro, ma non solo: miracolosamente, i disegni delle figurine (firmate da Angelo Bioletto) calavano in un corpo (grafico) i quattro protagonisti, caratterizzandoli meticolosamente sulle fisionomie di Dumas; nasceva così un’inquietante tensione fra l’immagine, ancora profumata di cioccolato, e l’inafferrabile delle voci radiofoniche; l’ascoltatore, per la prima volta, veniva coinvolto non solo tramite l’udito ma anche la vista e, in qualche modo, l’olfatto e il gusto. Con la promozione di D’Artagnan a quarto, effettivo moschettiere, l’alone romantico che aveva avvolto i tre eroi originari si era dissolto ed era stato sostituito dal canto delle sirene di una cultura di massa che dopo qualche decennio sarebbe diventato il grande corale in cui tutto si fonde.